Almost Brexit.

Solo un’Italia impacciata evita la totale disfatta UK.

Chiuso il primo round con una non del tutto inaspettata impresa del XV transalpino, possiamo tirare le prime somme del gioco espresso nello scorso fine settimana.

Le polveri bagnate dell’Italrugby non si sono asciugate con il vento nuovo portato da Franco Smith, però qualcosa si è, indubbiamente, mosso: un nuovo capitano, una mischia più fisica, alla maniera sudafricana, e l’idea di utilizzare Canna – uno dei più convincenti – come secondo playmaker denotano chiare idee di cambiamento e una sana dose di coraggio.

D’altronde, pensare di poter competere con questo Galles sarebbe stato oltremodo sconsiderato, se non sciocco. Biggar ha dimostrato, per l’ennesima volta, di essere una delle tre migliori aperture al mondo; l’anno in più ha portato esperienza ma non ha fiaccato i fisici e, nonostante gli infortuni, entrambi i reparti gallesi hanno confermato la loro eccezionale solidità, in continuità con il proprio stile di gioco che ha portato i Dragoni a fare lo Slam l’anno scorso.

Dal lato azzurro, benché le statistiche non raccontino un totale disastro – come il risultato finale porterebbe a pensare – gli aspetti negativi non mancano e non possono essere nascosti sotto il lenzuolo della novità. Un continuo ritardo nel sostegno e nel punto d’incontro, le pulizie non efficaci, i mancati placcaggi nelle azioni salienti e le deludenti prestazioni di giocatori che già hanno calcato i palcoscenici internazionali sono tutti elementi che, tirata la riga alla fine delle somme, mostrano un pesante segno meno al risultato.
Molto bene Cannone, in crescendo per tutta la partita; soddisfacenti tra i trequarti Canna e Braley; qualcosa da rivedere in terza linea, con un Polledri, solitamente sugli scudi, appena sufficiente.
Assimilare gli schemi e le idee di un nuovo CT non è mai semplice – c’è tempo per fare tutte le regolazioni necessarie – e, soprattutto, i problemi di questa nazionale non possono essere sistemati da un uomo solo nella prima partita del 6 Nations, come cerchiamo di spiegare in questo articolo dedicato all’eredità lasciata da O’Shea.
In fin dei conti, se le perdiamo tutte facciamo esattamente come l’anno scorso; quindi – per stavolta – non ci fasciamo troppo la testa e continuiamo a osservare con fiducia il lavoro di Smith.

Cambia il direttore d’orchestra, ma la musica irlandese è sempre la stessa. Sexton, nuovo capitano dei quadrifogli, è favoloso al piede e unico giocatore della partita a schiacciare il pallone in area di meta. Se quel fisico non più al 100% gli permetterà di continuare su questi livelli, l’infortunio al polso di Carbery potrà essere risolto senza fretta e Andy Farrell potrà dormire sonni un po’ più tranquilli.
Sarebbe dovuta essere la partita dell’esordiente Doris dietro la mischia, ma un colpo da KO ha costretto l’esperto O’Mahony agli straordinari: poco male. Continua, invece, il periodo no di Murray, impreciso sui calci e ancora lontano da quel metronomo che ha abituato i tifosi a giocate precise e rapide. I fantasmi del Mondiale sono ancora lì, e fanno sempre paura, ma se Dublino piange, Edinburgo, di certo, non ride.

La Scozia arriva da un pessimo Mondiale: la partita contro il Giappone ha mostrato – ancora prima dell’addio al rugby internazionale di Laidlaw, Barclay e Seymour – tutti i limiti di una squadra un po’ confusa e la rivoluzione è già, teoricamente, partita.
Hogg, al primo anno di Premiership a Exeter e investito di quel ruolo di capitano che, dopo l’addio di Laidlaw, era di nomina automatica, sporca una buona prestazione con un errore da serie C2 dentro l’area di meta. Coi se e coi ma non si fa la storia e tantomeno il rugby, ma l’impressione è che quei punti, scivolati come una saponetta, avrebbero potuto svoltare momentum e partita.
È stata comunque una Scozia al di sopra dei pronostici pessimisti usciti nelle ultime ore, causati – anche – dalla condotta indisciplinata del suo giocatore di maggior talento: quel Finn Russell tanto geniale sul campo da gioco quanto sregolato e poco disciplinato al bancone del pub. Notizia recente è la sua confermata esclusione per la prossima partita contro gli inglesi, cosa che costringerà Hastings a prendere per mano, probabilmente per tutto il Championship, una Scozia comunque fisica e con buone fasi statiche.

Alla fine, entrambe le squadre escono dall’Aviva Stadium con la medesima certezza: i piccoli aggiustamenti non aiuteranno in vista del prossimo round. L’Inghilterra cercherà con cattiveria riscatto contro i rivali al di là del Vallo di Adriano, mentre per l’Irlanda una prestazione identica a quella di sabato contro il Galles significherebbe, quasi certamente, una disfatta.

Lo spettacolo vero, però, è arrivato il giorno dopo, a cominciare da quella Marsigliese che, da chiamata alle armi qual è, rimbomba in tutto lo Stade de France, incutendo, ogni volta, assoluto timore e rispetto.

La Francia si presenta davanti al pubblico di casa come la grande incognita del torneo, non tanto per quanto riguarda lo staff – Fabien Galthié e, soprattutto, l’allenatore della difesa gallese Shaun Edwards, per dirne due, sono allenatori di assoluto livello, in grado di tranquillizzare il movimento – ma per una squadra profondamente rimaneggiata e ringiovanita negli avanti, con un nuovo capitano – Ollivon – e un reparto dei trequarti che garantisce una buona dose di bollicine al rugby champagne transalpino ma, in più di un’occasione, poco concreto. I favori del pronostico, banalmente, erano tutti per quell’Inghilterra furente e incattivita, bramosa di vendicarsi di quella finale Mondiale che ancora non è stata del tutto compresa e assorbita.
Invece, come in un bel romanzo di Albert Camus – per rimanere al di là delle Alpi – succede quello che solo qualche coraggioso avrebbe potuto immaginare. La mischia francese tiene lo scontro contro i titani bianchi, perlomeno nei primi 60 minuti. Il gioco alla mano di un Dupont prepotentemente salito sul palcoscenico dei migliori mediani di mischia del mondo e, soprattutto, il gioco al piede di tutto il reparto arretrato hanno saputo confondere gli avversari e divertire un incredulo pubblico anti-inglese.

Non è tutto oro quello che luccica, ovviamente. Se la difesa nei propri 5 metri e lo scontro nei breakdown sono stati fiori all’occhiello dei galletti, i Bleus hanno portato a casa la partita solo grazie alle meravigliose abilità individuali dei loro singoli – Dupont, Ntamack, Alldritt e Bouthier, per citarne solo alcuni – con una mischia alla completa mercè del pack inglese negli ultimi venti minuti e una squadra molto giovane, incapace di gestire il fiato correttamente a questi livelli. Se riusciranno a utilizzare corpo e mente nei momenti chiave, potrebbero avere una squadra pronta e brillante già da ora, senza aspettare i prossimi anni di avvicinamento a Francia 2023.

Dall’altra parte della Manica, il disastro è stato pressoché totale: una squadra fiacca, non dominante nei punti a lei più favorevoli, prestazioni inconsistenti e la sostanziale mancanza di un piano B hanno riportato i piedi di Eddie Jones per terra.
L’assenza più decisiva è stata quella dei fratelli Vunipola, senza i quali è stato necessario ripensare ai ruoli di ball carrier – protagonisti di un gioco inglese molto fisico e costante – e scommettere sullo spostamento di Curry da flanker a numero 8.
Esperimento che possiamo definire, per ora, fallito, in attesa che il giocatore possa ambientarsi fuori ruolo. In caso continuasse il problema di gioco dietro la mischia, è secondo noi pronosticabile la convocazione del giovane Dombrandt dei Quins di Londra, autore di grandi prestazioni in questa prima parte di stagione. 
Farrell poco in luce, complice un forte colpo al braccio destro a inizio partita, Ford per nulla incisivo, Young e May indefinibili nel primo tempo, poi sensibilmente ritrovati nel secondo. 
La prestazione contro la Francia è stata comunque un episodio: la qualità generale dell’Inghilterra è e rimane quella della terza forza ovale al mondo (e prima dell’emisfero nord); Eddie Jones è uno dei migliori head coach del pianeta e ha tutti gli strumenti per riportare la barra a dritta di questa corazzata.
I metodi del nuovo allenatore dell’attacco Simon Amor avranno bisogno di tempo per dimostrarsi efficaci: prima bisogna dimenticare quanto imparato finora quasi a memoria e il parco giocatori inglese è tra i più profondi al mondo.

Vogliamo chiudere in bellezza, perché questo è – per prima cosa – il rugby.
Chiudiamo, cioè, con lo splendido lavoro dei coach Roselli e Di Giandomenico – a cui vanno tutti i nostri più sentiti complimenti e ringraziamenti – che con le loro nazionali U20 e femminile proseguono un progetto fondamentale per tutto il nostro movimento, dai limiti ancora da definire. Non è da escludere che siano state proprio queste due realtà della nostra federazione, dall’identità di gioco chiara e distinguibile da tutti, a zittire quelle voci fastidiose che ci vorrebbero fuori da questo grande torneo europeo.