Caro rugby, ti scrivo, così mi distraggo un po’

Utilizzare “L’anno che verrà” di Lucio Dalla è probabilmente la cosa più banale possibile per chiudere un 2020 che, sconfitte più o meno pronosticate, di banale ha avuto davvero poco o nulla.

Gli ultimi giorni di dicembre sono sinonimo di quell’eterno contrasto, ripetuto ogni anno come un mantra, in cui si cerca, con occhio per quanto possibile benevolo, di trovare un equilibrio tra i due piatti della bilancia: da una parte, il resoconto dell’anno appena trascorso, nefasto da tutti i punti di vista, non solo rugbistico; dall’altra, gli abbondanti buoni propositi per i 365 giorni di fiducia e speranza che tanto ci auguriamo. 

Inutile puntualizzare da che parte penda l’ago.

L’anno vecchio è finito, ormai, ma qualcosa ancora qui non va

Negli ultimi 20 anni di rugby internazionale, solo due volte abbiamo concluso la stagione con un sonoro “0” nella colonna delle vittorie: nel 2002 e, guarda caso, nel 2020. 

In assenza di Coppe del Mondo – in cui la nostra media vittorie si alza sensibilmente grazie agli ormai consueti scontri con nazionali come Canada, Namibia, USA e Russia – punteggio e conseguente posizione nel ranking rispecchiano perfettamente la salute del nostro movimento.

Un sostanziale galleggiamento che ci ha permesso di entrare alle feste di gala organizzate dall’elite del rugby mondiale in cui, però, ce ne stiamo in disparte a mangiare vicino al buffet, invidiando le grandi Federazioni che ridono e scherzano in gruppo, tra un brindisi e l’altro.

Una situazione che non può soddisfare nessuno, perché non permette una reale e concreta crescita del movimento. Rimaniamo sensibilmente più deboli di quelli sopra di noi e più forti di chi ci sta sotto. Per anni ci siamo accontentati, ma ora vogliamo sederci ai tavoli che contano.

E senza grandi disturbi qualcuno sparirà

Le elezioni federali sono alle porte e, finalmente, cominciano a comparire i primi programmi. Piattaforme contenenti le parole giuste come “obiettivi”, “crescita”, “ambizione” e “territorio”, che fanno ben sperare in qualche piccola, ma esplosiva rivoluzione.

Buoni propositi, dicevamo. Sacrosanti. Ma attenzione, per davvero.

Per anni abbiamo ascoltato le parole sbagliate; proclami che si sono col tempo rivelati – dati alla mano – fallimentari e “sparate” che hanno continuamente indorato una pillola sempre molto amara.

Stavolta ci giochiamo davvero tutto: dalle prossime generazioni di campioni al futuro vero e proprio della palla ovale tricolore, passando per la crescita strutturale del nostro amato sport in tutto lo Stivale. Il rischio di trovare dietro l’angolo una delle più famose frasi tratte da “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa è sempre più grande:

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” 

Stiamo perdendo generazioni per strada e non ce ne facciamo un problema. Il rugby è uno sport che conquista completamente dal secondo in cui ci si entra in contatto. Ma quanti ragazzi cominciano spontaneamente a giocare a rugby senza che siano i genitori – spesso a loro volta di estrazione ovale – a portarli su un campo e introdurli al gioco? Come investire in modo corretto sul territorio, aiutando i club e riempiendo gli stadi di ragazzi entusiasti, realmente affezionati ai colori della propria squadra? 

A questa domanda non abbiamo risposta, ovviamente. Lasciamo la parola a chi ha scritto quei programmi accennati poco fa. Ma una richiesta, semplice e diretta, l’abbiamo.

Siate onesti, trasparenti, realisti. Siate schietti e sinceri.

Non ne possiamo più di ridicoli paragoni con realtà europee o assurdi obiettivi di grandi vittorie quando si vincono, quando va bene, 2 partite all’anno. Questo è il nostro livello al momento, ci sono queste difficoltà e queste sono le risorse: lavoriamo in questa direzione.

Non facciamo il tifo per nessuno. Tifiamo solo per il nostro rugby, per la sua buona salute e per i programmi sinceri. Sul resto, scannatevi quanto volete.

Per poter riderci sopra, per continuare a sperare

Il tifoso di rugby è, tra le tante cose, romantico di natura. Siamo fatti così, chissà perché.

A prescindere dall’andamento delle elezioni, di ruoli assegnati e poltrone occupate, il grande cambiamento sarà necessario e tutti dovremo avere una parte nel suo processo che, per ovvie ragioni, non potrà essere immediato. Ci vorranno tempo e pazienza, anche se noi italiani ne siamo storicamente un po’ carenti.

Prepariamoci al nuovo anno con fiducia e speranza, come diceva anche Lucio nel finale della canzone. Chissà che non fosse anche lui un amante del nostro sport.

L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando, è questa la novità